
Matteo il Primo – Fanficition italiane
Come quasi tutte le fanfiction italiane e non il riferimento a luoghi, eventi e personaggi è puramente casuale e non si riferisce a persone particolari. Ho voluto creare una fanfiction al di fuori di quelle di Star Citizen per sperimentare.
Avviso che Nella Fanfiction sono presenti volgarità e riferimenti sessuali. Buona lettura.
1992. Un anno con un’estate così afosa che ancora se lo ricordano i nonnetti al parco, rompendo la classica tiritera della discussione di metà pomeriggio sul fatto che ogni estate era più calda della precedente. Quell’anno è quando sono venuto al mondo in uno sperduto paesetto della Sardegna; quando ancora non c’era Netflix, smartphone, Snapchat e il massimo divertimento dei ragazzetti era distruggersi le scarpette da calcetto nuove giocando a pallone nei viottoli vicino casa.
Quei tempi non erano molto cambiati quando la mia spensieratezza da tredicenne era come quella di ogni ragazzetto. Non ora riverso sulla sedia di un’officina di merda pensando di aver vissuto inutilmente, aver sbagliato tutto e con la voglia di mollare tutto.
<<Ohi boss, c’è un auto schiantata vicino alla miniera di ferro. La
“curva della morte” ha colpito ancora… Boss?>> Strappato dai
miei pensieri mi ritrovai davanti la faccia di un ragazzo smunto con un naso
aquilino, e un mento lasciato apposta con la prima peluria incolta per darsi
delle arie.
<<Quante volte ti ho detto di smetterla di chiamarmi boss! Tu non sei un
gansta del cazzo e io il tuo boss>>
<<Sì… boss>>
<<Fottiti>> borbottai guardandolo negli occhi, con quel suo fare
strafottente. <<Cosa dicevi su Betzi, ne ha steso un altro?>> Betzi
era il nomignolo che avevamo dato a una delle più pericolose curve di Altis,
isola greca nota da tutti quelli che non ci hanno mai messo piede come un
paradiso terrestre. Più che altro era una polverosa isola mediterranea, che
solo i nativi della zona riuscivano a sopportare. Betzi era stata progettata
grazie ai fondi europei, e il noto ingegnere che si era prodigato a realizzarla
aveva ben pensato di stringerne il raggio della curva per non espropriare i
terreni di qualche pezzo grosso.
<<Già, ci ha chiamato il tenete Kostantios per recuperare il rottame;
altri pezzi di ricambio da rivendere boss>> disse lo smunto.
<<Mouse, piglia le chiavi e tira fuori il furgone del soccorso stradale.
Io chiudo l’officina e tu intanto fai il giro fino all’entrata>>.
<<Grazie boss, guiderò piano>> disse tutto d’un fiato Mattias Ause,
detto Mouse per la propria fisionomia.
<<Vedi di non montarti la testa, pivello>>.
Nonostante il viaggio dall’officina di Kavala al luogo dell’incidente fosse
come sempre accompagnato dalla radio a palla di Mouse, c’era qualcosa che mi
metteva di malumore, mi faceva stranire dalla realtà stessa.
La scena dell’incidente era come tante: soliti turisti che non conoscevano la
strada imbottiti di ouzo e finiti a gambe all’aria. L’auto era capovolta, i
vetri rotti, il moncone di un cerchione lontano diversi metri dalla carcassa.
Ci avvicinammo a Kostantios per i soliti convenevoli seguiti dai grugniti di
assenso del taciturno tenente.
<<Turisti?>>
*Uh Uhh*
<<Avete già fatto i rilievi, no?>>
*Mhmm*
<<Ok, allora dico al mio assistente di preparare il rimorchio…>>
<<Un attimo, c’è il medico legale che sta controllando. Erano una coppia.
Lui sembra che abbia tirato su con il gomito, o chessò, non ci sono segni di
frenata. Lei invece è nell’ambulanza là in fondo con un trauma di qualche tipo.
Mmmmph>> Kostantios sembra aver appena concluso un discorso presidenziale
della durata di quattro ore: la fatica nel spiccicare quelle poche parole gli
si leggeva sul volto pieno di rughe e il mugugno finale s’intendeva come una
conclusione che non ammetteva repliche.
Non so cosa mi guidò verso l’ambulanza lì parcheggiata. Una forza misteriosa, un essere superiore, il destino. Tutte cose forse assurde, forse veritiere e concrete come l’essere umano lì steso sul lettino dell’ambulanza.
<<Quattro, cinque, nove, sette, murra, quattro>>. Il gruppetto
di ragazzetti dava sfogo a pieni polmoni alla propria concentrazione nel
vincere il turno alla morra. Il gioco consisteva nell’indovinare la somma di
numeri esatta che i due sfidanti avevano appena concretizzato mostrando
l’equivalente con il numero delle dita. Il segreto stava sempre nel richiamare
a voce un numero alto, vicino al 10 (o murra) in modo da poter fare un punto.
Non aveva molto senso puntare all’uno o il due, perché gli sfidanti non
avrebbero di certo messo in mostra due indici contemporaneamente invece che il
palmo della mano completo. Ma a Matteo divertiva sfasciare i risultati e
arrivato il suo turno ripeteva sempre e comunque “uno, uno, uno, uno”
tanto per far scazzare gli amici e convincerli a giocare a pallone.
<<Hai rotto le balle con questo uno, tanto non vinci così Matté!>>
<<Gioca! Prima o poi uscirà no? Tanto vale tentarci. Uno, uno,
uno…>>
<<Ecco Matteo il Primo, sempre pronto a fare il bastian contrario su
tutto e tutti>> disse una ragazzetta rivolta al gruppo di amici. Aveva
occhi nocciola, capelli ricci corvini e una particolare fossetta sul naso che
si era saldato male per via di una qualche caduta. L’imperfezione al naso gli
dava un aspetto sbarazzino e lo sguardo penetrante della ragazza metteva Matteo
in soggezione, non riuscendo più a spiccicare una parola dopo l’altra.
<<Maria gioca con noi, tanto faresti meglio di questo deficiente che
punta solo uno>> Disse un ragazzetto paffuto, raccogliendo tutto il
coraggio possibile per parlarle, mentre Matteo la fissava e basta.
<<Nah passavo da qui solo per salutarvi, e poi la morra non è gioco da
donne!>>
Una musica proveniente da un autoradio a palla preannunciava il rombo della
marmitta della Punto. Un gruppo di ragazzi spuntò dal fondo del vicolo e si
avvicinò al gruppo della morra. Tutti sapevano che erano le solite teste calde
immischiate nei “casini” che i nostri genitori ci dicono di stare
lontani, ma quel gruppo che scorrazzava dove voleva e quando lo voleva era una
sorta di punto di riferimento per noi più giovani.
<<Ciao Maria. Vieni a farti un giro con noi>> sembrava più una
constatazione che una domanda, da parte del tipo che guidava la Punto
scarrozzata che si era appena accostata.
<<No, sto andando a casa Raimondo.>> disse Maria dandosi un tono
per non mostrarsi spaventata.
<<Non era una domanda. Su sali.>> rispese il tipo ancora in tono
ostile. Maria nonostante avesse ancora tracce della voce da bambina, aveva i
chiari segni di una quattordicenne e dell’essere donna.
<<Ti ho detto di no!>>
<<Cazzo, se mi fai scendere per venire a tirarti dentro ti prendo a
botte. Vedi mi stai facendo arrabbiare per nulla, voglio essere gentile con
te.>>
Nessuno di noi altri osava respirare, la situazione era al di là di uno scherzo
ed era dannatamente seria.
Anche lì una forza al di là della comprensione, come quel giorno dell’ambulanza nei pressi di Kavala, mi aveva spinto a mettermi affianco di Maria e fissare il “grand’uomo” dall’aria vissuta, ma che non dimostrava più di 17 anni.
<<Cazzo fai? Togliti dalla palle nanetto di merda, che mi stai
privando di un bel panorama. Dai “chiappe d’oro” salta su che si fa
notte>>. Sbraitò Raimondo.
<<Ha-ha Ha detto di no>> dissi. L’aria ebbe un fremito. Il freno a
mano fu tirato violentemente e il tipo scese chiudendo con un botto la
portiera.
<<Levati dal cazzo!>> Il pugno arrivò all’altezza dello stomaco
facendomi piegare in due, gli altri si diedero a gambe e Maria si mise a
gridare come una pazza.
<<Zitta stronza, zitta o ti meno>> urlò più forte Raimondo. Ma il
trambusto e le grida di Maria avevano fatto affacciare un uomo di mezz’età,
forse un maestro delle superiori, che abitava al secondo piano della palazzina
là vicino. Il presunto maestro aveva la cornetta del telefono in mano e stava
chiamando le guardie. Al sentire di aver attirato troppo l’attenzione, il
“grand’uomo” si precipitò nuovamente in macchina per sgommare via,
senza però mancare di aver aggiunto un “non finisce qui” prima di
scomparire.
<<Grazie Matte, ma me la so’ cavare da sola. Fatti i fatti tuoi la
prossima volta>> disse Maria spaventata come d’altronde lo ero io,
riuscendo a balbettare un <<p-p prego>>.
Quel giorno mi sentii un eroe, ma questo non è una favola della buona notte e
dopo qualche settimana passata come sempre più per strada con gli amici che sui
libri di scuola, i genitori di Maria erano stati chiamati di notte dalla pula
perché aveva ritrovato la ragazza con evidenti segni di percosse ma per fortuna
ancora viva. Qualcuno aveva ottenuto ciò che voleva. La scuola era finita
subito dopo e Maria era andata via dal paese. Quell’episodio mi aveva
profondamento segnato. Se non fossi intervenuto non sarebbe successo niente a
Maria. Le superiori passarono nel più totale anonimato; ero stato uno dei tanti
a voler prendere il diploma di geometra e macinare soldi con gli appalti
pubblici, ma una volta concluso l’esame con un misero 75/100 avevo già in mente
cosa fare…
<<Mattè, senti a babbo: ti iscrivi all’università, diventi ingegnere e vai
con zio a lavorare in studio e non voglio sentire una mosca volare. È
deciso>>.
<<No!>> dissi. Avrei voluto strozzarlo in quel momento, per la sua
ottusità. Non mi importava nulla di studiare formule geometriche per creare un
ponte sul rio sticazzi che sarebbe stato lì per i prossimi anni finché non
fosse stato chiuso per la scoperta di crepe nei piloni per il cemento
contraffatto.
<<Tu fai quello che ti dico io! Chiaro?! Se no ti sbatto fuori di
casa>>. I mesi seguenti passarono a fare il bravo tirocinante geometra. A
imparare formule, allacciare amicizie per i soliti intrallazzi e a studiare
l’inglese, perché “l’inglese è importante, non si va da nessuna parte
senza sapere l’inglese” ripeteva lo zio con lo stesso tono imperioso del
fratello. E forse lì, e lì soltanto, aveva ragione. Raccimolati i primi soldi
avevo deciso di affrontare i miei e andare in America: la terra delle
opportunità. Il babbo aveva sbraitato per un po’, la mamma pianto, ma dopo
avergli assicurato che volevo cambiare aria, realizzarmi, avevano acconsentito.
America here I’m. Avevo ancora l’idea di lottare per sistemare le ingiustizie, prendere il porto d’armi, imparare qualche tecnica cinese di arti marziali per spaccare culi e magari entra in polizia. E vedevo lei come la vedo adesso nella barella; non era cambiata poi così tanto: il naso rotto era inconfondibile in quella matassa di ricci corvini.
<<Boss che c’hai? È ridotta male, ma è un bel tipo eh?>> disse
Mouse ridacchiando tra sé.
<<È lei.>>
<<Come? Lei? Lei chi?>>
<<È una lunga storia. Io seguo l’ambulanza in ospedale, mi faccio dare
uno strappo dalla volante. Tu cerca di spostare dalla strada quel rottame. Ci
vediamo più tardi.>> Mouse era rimasto senza parole.
Dopo l’ennesimo grugnito del tenente per avergli chiesto il nome, data e luogo
di nascita di Maria per dissipare tutti i dubbi, gli avevo detto di
accompagnarmi all’ospedale inventando una scusa riguardante il pagamento del
ticket per la visita medica semestrale di Mouse e il suo permesso di continuare
a lavorare in officina. Il viaggio verso Kavala era stato un nuovo turbinio di
ricordi, peggiori dell’andata.
Domande come, si ricorderà di me? Di certo non sono più “Matteo il Primo” che rompeva le balle a tutti. È, anzi era, sposata. Forse ha dei figli. Non so se sarebbe opportuno. Ne ho passate diverse dall’ultima volta che ci siamo visti ragazzetti smunti, e anche lei ne avrà da raccontare.
Di certo non vorrebbe sapere che in America sono successe cose di cui mi pento… Essere un “mangia spaghetti” nel Nuovo Continente vuol dire essere etichettato come un mafioso. Questo è quanto mi avevano detto al concorso di polizia e nonostante il punteggio mi avevano scartato senza tante cerimonie. Tutto il mondo è paese. Cosa potevo fare con un porto d’armi e voglia di giustizia? Si inizia col pensare che nei panni di un Vigilantes privato puoi tenere al sicuro i risparmi dei contribuenti, ma la voglia passa quando ti trovi un M6 puntato addosso con il tuo giubbetto antiproiettile scaduto e una divisa appartenuta a un altro. Non ci crepo per 40 dollari all’ora. Passi quindi a cercare lavoretti come buttafuori, ma lì trovi solo stronzetti cagasotto e quando ne stendi uno a cazzotti per aver palpeggiato una cubista che è figlio di qualche signorotto del petrolio, ti ritrovi a dover pagare una cauzione stratosferica e a incontrare strana gente. Come il cognato del “signorotto del petrolio” che vuole “gente che ci sappia fare”, “che non teme di menare le mani” e che ti fa i complimenti per aver messo un po’ di sale in zucca al nipote.
Il tipo, che non nominerò, trafficava in auto di importazione e oltre a
saper sparare e obbedire a comando come un cane voleva che i suoi
“dipendenti” conoscessero a meno dito tutte le parti di un auto: come
smontarla e rimontarla, nasconderci importanti “consegne” (molto di
più di semplice droga) e quale problema ci fosse se il ronzio dell’auto era
diverso dal solito. <<Matteum hai di nuovo bruciato un po’ d’olio della
frizione, quante volte ti devo dire che per spuntare come cazzo si deve devi
sentire che il pedale della frizione fa resistenza come una figa stretta e solo
allora buttare il piede sull’acceleratore? EH sti mangia spaghetti!>>
<<Veramente è Matteo>>.
<<Come? Matteoh, Mattejk, Matteum, Matto, chi cazzo se ne frega. Importa
solo che tu faccia quello che ti dico!>>
<<Sì, boss>> mi bastava dire quello. Soldi, donne, alcool e
adrenalina non mancavano, anche se non facevo giustizia a nessuno. Il pensiero
di Maria era sbiadito e con esso anche il senso delle realtà.
Gli anni passavano e il “sì boss” faceva sempre più fatica a venire
fuori. La misura fu superata quando in una sera di fine agosto, consapevoli che
non ci fossero i proprietari grazie a una soffiata, dovemmo rubare una Bugatti
di un riccone parcheggiata in uno di quei villoni da re. Pensavamo che fosse un
lavoretto facile, ma quando pizzicammo la figlia del proprietario chiusa in
macchina con un “quaterback” (o come cazzo si chiama chi gioca a Ragby), lo
stesso boss si era trasformato, o forse sapevo fin dall’inizio che in lui c’era
del marcio, quello vero. La copertura era saltata e gli avevo detto di
andarcene prima che qualcuno avesse avvisato la polizia. Ma dopo aver
spaventato la coppietta e preso a calci in culo il quaterback fino all’uscita
del garage, “il boss” era entrato in auto con la ragazzetta con
l’intento di finire il lavoro iniziato dal giovane. Ce ne eravamo fatte di
tutti i colori e tipi, e ci raccontavamo chi ci sapesse fare di più, ma mai
così giovani. Mai a quanto sapessi, almeno.
Lei era terrorizzata e nonostante dicessi sbraitando al boss di andarcene, lui
non sentiva ragioni. Rivivevo con la mente la scena di quello sperduto paese
sardo e di Maria pestata a sangue. Avevo tirato fuori di forza il porco
riempiendolo di botte fino allo sfinimento. Avevo quindi intimato la ragazza terrorizzata
di chiamare la polizia; avrebbero arrestato il “boss” e forse buttato
la chiave, ma ne dubitavo. Quanto per me era ora di cambiare nuovamente aria.
Di certo non sapevo dove andare di preciso. Fu una cartolina turistica raffigurante una “fantastica isola greca del mediterraneo” a farmi decidere. <<Un posto vale l’altro>>. Così dopo aver investito i pochi risparmi, prima che mi prosciugassero i conti alle Cayman aperti dal “boss”, in un’autofficina nel buco del culo del mondo, mi vedo il passato riaffiorare dal nulla. Quante cazzo di possibilità potevano esserci di rincontrarla? Proprio qui, poi!
Continuavo a fantasticare anche dopo il terzo o quarto grugnito lanciato da
Kostantios, che aveva raggiunto i livelli di un cinghiale pronto alla carica,
quando mi ritrovai all’ingresso dell’ospedale. Lo ringrazi senza aspettare
risposta e mi fiondai nella reception. <<Salve è appena arrivata una
donna che ha avuto un incidente, tale Maria. Son un vecchio amico>>.
<<Mi dispiace possiamo fornire dati solo ai parenti stretti>> disse
l’infermiera di turno.
<<Guardi mi dica almeno se è in pericolo di vita>> dissi agitato.
<<Non posso, mi dispiace>> concluse dedicandosi ad altro.
Tornai quindi in autofficina. Mouse aveva messo il rottame dell’auto di Maria
in un angolo. In città non si parlava d’altro, anche se la notizia non era poi
così eccezionale visto il rodato “tocco di Betzi”.
I giorni passarono e non ebbi più notizie di Maria. Irrompere in ospedale non
era di certo una soluzione, e poi non erano affari miei. Il malumore generale
si trasformò in una cupa apatia che neanche le battutacce di Mouse riuscivano a
smorzare. Non lavoravo più, non uscivo più dall’officina. Un’altra delusione da
una vita deludente. Era stupido, non ci vedevamo da anni ma speravo per un
lieto fine almeno per lei. E una sorta di fine ci fu.
Kostantios venne un giorno a far controllare la volante. Era strano di per sé
perché la polizia sebbene in un buco di culo di isola, aveva i propri
meccanici. Era imbarazzato, non l’avevo mai visto così. Poi quando controllai
di malavoglia candele e olio motore si fece coraggio tirando fuori dalla giacca
una cartella: <<Penso che ti farebbe piacere avere questo Mmmg.>>
Lo presi imbrattando la cartella di olio, e pensando che si fosse completamente
rincoglionito l’aprii leggendo il quadro clinico di Maria. Coma per morte
celebrale.
Vedendo la mia espressione boffonchiò un mi spiace.
<<Come? Come sapevi?>> chiesi.
<<Ho visto la tua espressione>> fece un gesto indicando il proprio
volto, <<è ho pensato che la conoscessi. Poi Mouse non ha mai fatto
visite mediche per lavorare qui, quindi…>>.
<<Grazie>>.
Se ne andò, lasciandomi la cartella. A quanto pareva Maria era sposata a un
medico di nome Alf Jonson residente a Los Santos, California. L’ospedale e la
stessa polizia di Kavala avevano tentato di contattare il numero di telefono
della domiciliazione constando che la colf non sapeva cosa fare e non risultava
nessun parente prossimo, solo qualche cugino alla lontana in Florida e i
genitori di lui in Texas. “I genitori di Maria dovevano essere morti”
pensai. Gli altri fogli mostravano i risultati di una tac, e esami sanguigni.
Il tutto lasciare presagire a una grave lesione riportata nel lobo frontale da
parte di un forte impatto. L’ultima pagina era invece dedicata a scartoffie
amministrative dell’ospedale. Niente figli, per fortuna, almeno non ci
sarebbero stati orfani.
Altro tempo passò. La notizia delle vite spezzate da Betzi non fece più
scalpore, e Maria fu trasferita a Los Santos senza che potessi più vederla.
Mouse faceva le solite battute e non smetteva di chiamarmi “boss”
nonostante tutti i vaffanculo che l’avevano bersagliato, finché non mi presentò
una pendrive con i documenti per smaltire il rottame dell’incidente.
<<Boss, ho tirato via i pezzi buoni e il resto sarà da mandare allo
sfascio>>
<<Fammi vedere>> gli dissi aprendo il PC sulla pagina da lui
indicata. Targa 57 ARTZ 92 immatricolata a Los Santos nel 2017, marca Oudi
serie 7. Oudi serie 7… mmm quelle hanno i freni carbonceramici di serie. Li hai
smontati Mouse?>>
<<No, aveva dei comuni dischi. Anzi le pastiglie dei freni erano un po’
consumate, soprattutto il lato destro. Strano ora che ci penso>>.
Una sorta di fulmine mi riscosse. Di certo quelle non sono auto da perdersi nei
dettagli, soprattutto con dottori che sborsano centinaia di migliaia di dollari
pur di averle.
<<Ovviamente il liquido dei freni è andato con l’incidente>> Mouse
mi guardava stranito. <<Anche i freni possono aver subito dei danni
durante lo schianto. Tuttavia è strano che non ci siano i carbonceramici di
serie; la centralina c’è stata consegnata dalla Polizia dopo tutti i rilievi
no?>> Mouse annuì. <<Portala qui>>.
Montati i cavetti per lo strumento di diagnostica, ci piazzammo tutti e due in
ufficio sprangando l’autofficina. Fuori c’era il solito caldo afoso del
pomeriggio e non volava una mosca. Il caricamento dei dati della centralina della
Oudi serie 7 sembrava lentissimo, ma dopo un quarto d’ora avemmo sotto gli
occhi il tutto.
L’ESP (Elektronisches StabilitätProgramm) era disattivato al momento
dello schianto e il limitatore di velocità tipico di veicoli con quattro mila
cavalli vapore era anch’esso fuori uso. Qualcuno aveva manomesso la centralina.
Qualcuno aveva voluto che Maria avesse un incidente, e lo facesse passare come
tale e non come un omicidio.
<<Devo andare a Los Santos. L’autofficina è tua Mouse>>.
<<C-c osa? Dove vai boss? Che succede???>>
<<L’auto è immatricolata lì, e se ci sono degli indizi sui freni e sulla
centralina li posso trovale lì e non in questo buco di merda. Abbi cura di
te>>.
Non mi voltai, sentendo solamente uno stentato “sì, boss”.
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Il blogger,
Matteo “Matteum Primo” Sechi.